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Il dolore conosce la strada di casa!

  • mauromontanari9
  • 23. Mai 2024
  • 4 Min. Lesezeit

Una nota a margine dell’opera di Paolo Sbrissa


L’opera grafica di Paolo Sbrissa, Le Lamentazioni, La ballata della morte, Geremia, mi passa davanti, cartella dopo cartella, come un incubo riuscito. Una massa di carne viva in forma cartacea è là a testimoniare del dolore umano. Ma di questo parlerò dopo. Intanto, chi è Paolo Sbrissa, da Castelfranco Veneto, artista di sangue, oltre che di vocazione? Io lo conobbi alcune diecine di anni fa, quando entrambi, ragazzi, ci fermavamo a parlare per notti intere, sulla via per Marradi, di Eraclito di Parmenide e di Dio.

Guardando le sue cartelle, ora, mi vengono in mente quelle notti. C’era la consapevolezza che i libri, il sapere, l’arte fossero importanti e che potessero cambiare la vita. Ci sbagliavamo? Credo di no! Il sapere ci rendeva padroni della nostra esistenza. Ancora oggi ne sono convinto, perché il filo del sapere, dal passato fino ad oggi, ci dà il senso della continuità dell’esperienza umana.

Nell’opera di Paolo, ci vedo la continuità del dolore. Peraltro, senza il dolore la vita sarebbe banale. Il dolore ci rende quello che siamo, ci testimonia della nostra condizione umana; anzi, ci rende più forti, perché il carattere forte è tale proprio perché è pieno di cicatrici. Ecco allora che le anime che sfilano dalle cartelle di Paolo si concedono il dolore come atto di forza. Mi ricordano i folli di Gesualdo Bufalino che scendono in cortile in fila indiana, lungo le scale di un Istituto psichiatrico, bianchi, con le guance malrasate, travestiti da vivi, per piangere finalmente da soli, appoggiati alla spalliera della panchina. Finalmente appoggiati a qualcosa! Nell’opera di entrambi, di Paolo e di Gesualdo, la solitudine è una condizione non negoziabile dell’anima, dalla quale, certo, vorremmo fuggire, ma alla fine, lo sappiamo bene che moriremo da soli. Ci rimane, per dirla con Eraclito, soltanto l’attimo, per cogliere un’alba, un tramonto o per sentire il profumo di una donna. Tutto è nell’attimo. Il resto è dolore, che conosce bene la strada di casa. Ma è proprio la consapevolezza del dolore che ci rende misteriosamente la forza di rinascere.

Scorrendo la grafica di Paolo intravedi anche le discussioni che avevamo allora: il Qoelet, che insieme leggevamo in un qualche rifugio sull’appennino romagnolo, sulla strada per Marradi, appunto, sulle tracce di Dino Campana, un altro folle errante che piaceva sia a me che a Paolo, e che sarebbe piaciuto anche a Bufalino. Per scaldarci, bruciavamo vecchie travi di ferrovia rubate da qualche parte nei dintorni; si beveva vino in cartoccio e si cuocevano le patate al fuoco. E poi Qoelet, Eraclito, Parmenide e Dio.  

Non faccio volentieri recensioni della noiosa e in gran parte superflua arte contemporanea; il fatto è che l’opera di Paolo non è contemporanea; ha, sì, il grido dalle sbarre dei grandi folli moderni: da Dino Campana, a Gesualdo Bufalino, a Jean Genet. Ma, appunto, c’è di più. C’è il grido semitico contro l’indifferenza di Dio e c’è la tristezza che ne consegue; la tristezza per il maledetto dolore umano. Io lo capisco perché l’ho vissuta. Il maledetto dolore umano, questo il punto! All’epoca ci sembrava quasi che il peccato ce lo fossimo inventato noi per non essere castigati senza ragione. La sensazione che avevamo, Paolo ed io, e molti altri della nostra generazione, era che la morte fosse all’angolo e che ci restasse poco tempo. E avevamo vent’anni! Malgrado ciò, passo dopo passo, si andava avanti, si rinasceva, obbedendo semplicemente all’ingiunzione di esistere, nonostante il maledetto dolore. La nostra forza era la consapevolezza delle nostre cicatrici. E anche la grafica di Paolo è questa: un urlo semitico in direzione del cielo vuoto. Un grido di rabbia contro l’orribile dolore umano, ma anche la forza per rinascere.

Ed eccolo là, l’Ecce Homo contemporaneo di Paolo, riassunto nelle sue cartelle che sfilano una dopo l’altra. Sembra di vederlo, il suo Ecce Homo, nel cortile di un istituto di pena, o di un rifugio per sfollati, o di un ospedale per malati terminali; eccolo là nel suo sdrucito impermeabile bianco, al riparo dalla pioggia, sotto un precario tettuccio di eternit, pallido, nella veemenza della tosse, con le unghie spaccate, con la roseola sulle labbra e il lampo di febbre nell’iride. È lo stesso Ecce Homo che sarà crocifisso di lì a poco e le cui ultime parole saranno Eli, Eli, lemà sabactani, Dio, perché mi hai abbandonato? In scena è ancora il maledetto dolore umano. È lo stesso dolore di chi viene crocifisso ogni giorno, su qualche palo della terra, e con lo stesso grido in gola: Dio, perché mi abbandoni? Ma nella consapevolezza che l’importante viene dopo!

MI fermo qui. Solo un’ultima cosa a margine. Paolo non è sostenuto dal vento amico del mainstream, non ha uno sponsor generoso che lo fa andare in televisione; non fa la fila per farsi notare da Vittorio Sgarbi, né gli darebbe mai tremila euro per farsi scrivere una paginetta di recensione. In più, non è neppure nei social. Non glie ne frega niente. Chi vuole vederlo deve andare da lui, a Castelfranco Veneto, magari facendo una sosta alla Pala del Giorgione, sedendosi poi con lui, di fronte ad un bicchiere di bianco, a parlare della vita!

Mauro Montanari, Ph. D.

Nella foto: grafica di Paolo Sbrissa dalla raccolta La ballata della morte



 
 
 

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